Le Rocce Vulcaniche.
I terreni sedimentari di cui abbiamo parlato, in ampi tratti del comprensorio Sabatino-Tolfetano sono coperti da rocce vulcaniche appartenenti a due fasi eruttive differenti che danno luogo ad una forma di paesaggio dai toni “drammatici”, completamente diversa dalle dolci colline sedimentarie. E proprio da questi contrasti nasce la grande bellezza di questa Riserva Naturale.
Una prima fase corrisponde alla formazione dai rilievi vulcanici a forma di “cupole”, costituiti da lave dure e compatte, che rientrano nel quadro di attività legate al vulcanismo Tolfetano - Cerite - Manziate di età Plio - Pleistocenica inferiore (tra 4 e 2 milioni di anni fa) e che costituivano proprio gli isolotti di cui parlavamo pocanzi.
Successivamente, dopo un lungo periodo di relativa calma, si è verificato un grande risveglio della attività vulcanica con la formazione dell’apparato Vicano a nord (zona di Vico-Cimini) e dell’apparato Sabatino a sud (zona tra Campagnano e Bracciano), a partire da 700.000 anni fa.
A differenza del Vulcano Vicano, un classico vulcano con cono principale centrale, quello Sabatino era costituito da numerosi centri eruttivi disposti in genere secondo linee corrispondenti a fratture della crosta terrestre da cui fuoriuscivano magma, vapore d’acqua, gas.
Rocce come i "Peperini listati" affioranti lungo la valle del Mignone, il Fosso della Palombara e la Valle del Bicione, vennero originati da spaventose eruzioni di “nubi ardenti” o ignimbriti (il termine deriva dal latino e significa “pioggia di fuoco”), uno dei più spaventosi e distruttivi fenomeni della natura, costituito dalla fuoriuscita di una miscela ardente (oltre 800°C) di gas, vapor d’acqua, roccia fusa e massi incandescenti che poteva raggiungere una velocità di 250 Km/ora (a seconda della pendenza dei versanti), distruggendo tutto sul suo cammino. Al termine del fenomeno si aveva un tappeto (una “coltre”, in linguaggio geologico) di ceneri incandescenti che gradualmente si raffreddavano ed indurivano. Un fenomeno simile è stato riconosciuto dai geologi nella spaventosa distruzione della Città di St. Pierre, nella Martinica (Caraibi francesi), avvenuta nel 1902.
In sponda sinistra idrografica del Fiume Mignone affiorano in prevalenza rocce riferibili a colate laviche che hanno originato rocce dure e compatte, come i "Peperini listati" o il "Tufo rosso a scorie nere", quest’ultimo molto poroso e ricco di pomici nere o da banchi più teneri, pozzolanacei.
Vale la pena di ricordare il diffuso impiego delle rocce laviche dalle elevatissime qualità meccaniche sin dall’antichità per la realizzazione di manufatti particolarmente esposti ad azioni meccaniche prolungate o intense: è il caso dei "basoli" delle grandi opere viarie romane, dei più recenti acciottolati di “sanpietrini” e dei conci per la costruzione di opere di fortificazione, come il Castello Orsini di Bracciano.
Per la facile lavorabilità e le discrete qualità meccaniche i tufi sono stati molto utilizzati come materiali da costruzione (anche ricavandovi tombe o edifici sul posto, come nel caso delle sepolture etrusche) sin dall’antichità.
Nell’area della Riserva Naturale lungo la valle del Mignone, il fosso della Palombara e la valle del Bicione, le rocce vulcaniche sono profondamente alterate dall’azione dei solfuri e solfati originati dalla presenza di gas circolanti nel sottosuolo.
E’ soprattutto in corrispondenza delle zone maggiormente fratturate che si manifestano in superficie sorgenti e venute gassose di C02 e H2S a temperature più elevate della media locale; a queste acque si deve la genesi delle caratteristiche “Solfatare” dove talvolta gorgogliano acque color bianco latte e dove si può osservare la mineralizzazione per incrostazione delle rocce o di materiale organico e la presenza di ristagni con acque ferruginose (come quella del Fosso Rafanello, ancor oggi utilizzata dai locali) dove domina l’intensa colorazione rossastra dovuta alla forte mineralizzazione del sito.
Le rocce, soprattutto dove sono a contatto con acque mineralizzate e calde sono sottoposte ad un intenso processo di mineralizzazione: è questa l’origine della ricchezza di minerali del territorio Monteranese, estratti nel corso dei secoli, dalle miniere settecentesche di zolfo (la più importante è stata sicuramente la Miniera di zolfo del Fosso del Lupo o del Biscione di proprietà della famiglia Altieri che nel 1860 produceva 250 t di minerale) a quelle del manganese degli anni ‘30 per arrivare ai “saggi” per ricerche uranifere degli anni ‘60.
Le rocce vulcaniche sono abbastanza permeabili e l’acqua riesce a raggiungere il sottosuolo e formare falde idriche abbastanza ricche e sfruttate da pozzi, spesso eroganti acque minerali.
Il piccolo altopiano tufaceo o “acrocoro” su cui sorge l’abitato di Monterano (vedi oltre) come quello dall’altra parte della valle del Fiume Bicione, costituito dalla sovrapposizione di diverse rocce vulcaniche (peperini listati del Mignone, Tufo rosso a scorie nere, frutti di diversi episodi eruttivi), è quello che resta dell’antica copertura di rocce vulcaniche, pressoché piatta (“tabulare”), che si formò alla fine delle emissioni di ceneri ed ignimbriti.
Il duro bancone vulcanico, inciso per millenni dai corsi d’acqua che hanno formato le valli strette ed incassate note come “forre” (uno degli ecosistemi più importanti dall’area protetta e del comprensorio), è interessato da fessurazioni che attraversano la massa rocciosa in tutti i sensi e si sta sfaldando per la progressiva separazione delle pareti in massi di diverse dimensioni.
Queste forme di paesaggio, note nel Viterbese come “castelline” perché somigliano ad abitati fortificati, sono tra le più effimere nel panorama geologico laziale e sono destinate a scomparire entro tempi geologicamente molto prossimi. Un masso rotola a valle e ci fa pensare al continuo divenire della Natura, al progressivo trasformarsi di questa nostra Terra.
Flora e Vegetazione.
Anche a Monterano c’è un antico albero che forse non veniva adorato ma certamente costituiva il luogo dove si svolgevano importanti momenti di incontro della collettività, soprattutto durante il lavoro dei campi: si tratta della maestosa Quercia della Lega, che ha anche una compagna appena un poco più piccola ma altrettanto maestosa.
Il paesaggio vegetale della Riserva Naturale è assai ricco e variato, grazie agli effetti del clima locale; in particolare l’afflusso continuo di umidità dal mare abbassa i limiti altimetrici della vegetazione (cioè si trovano a quote più basse piante che dovrebbero stare in zone collinari più elevate o addirittura montane, come il faggio): questo insieme di fattori viene definito dai botanici come “effetto colchico”. Importante anche il peso delle caratteristiche microclimatiche, cioè al clima di singoli, limitati ambienti quali le forre, sul fondo delle quali, anche nelle estati più secche, troviamo aria fresca e un certo tasso di umidità grazie alla ricchezza di acqua, alla bassa insolazione e alla protezione dai venti. Per tutti questi motivi la Riserva naturale ospita, a stretto contatto, specie di ambiente appenninico quali il faggio e specie di ambito strettamente mediterraneo, come il leccio, specie di areale balcanico come il bagolaro e specie “africane”, come la tamerice.
La Riserva Naturale ospita una fauna ricca e varia che comprende ben 24 specie inserite nelle Liste Rosse (Libro Rosso degli animali d’Italia), nonché negli elenchi di interesse comunitario; essa ospita il 31% della fauna italiana e ben il 56% di quella laziale.
Complessivamente sono state censite 142 specie di vertebrati, con 24 specie inserite nella Lista Rossa (il 19% del totale), un valore assai elevato per un territorio di dimensioni limitate, a conferma della varietà degli habitat presenti e del loro buono stato di conservazione.
Se ti è piaciuto l'articolo , iscriviti al feed cliccando sull'immagine sottostante per tenerti sempre aggiornato sui nuovi contenuti del blog:
0 commenti:
Posta un commento