Anche prima di affrontare la sua fortunata avventura televisiva, Soldati “operava” a stretto contatto con il territorio. Quando qualcosa lo sorprendeva, lo appassionava, rispecchiava la sua visione del mondo, ne faceva un racconto.
Ogni città, ogni paesino descritto nelle sue pagine è un luogo concreto, tangibile, percorribile. Ogni personaggio esiste, ogni dialogo è vero, ogni pietanza riportata nelle sue pagine è stata da lui assaggiata e apprezzata.
Ci si può fidare sulla parola. Il garante è lui stesso: caro lettore, caro spettatore, caro telespettatore, sembra dire, io non intendo ingannarti più di quanto richieda quel minimo di finzione che fa un romanzo, un film, una trasmissione televisiva. Questa dichiarazione di lealtà trasmette al lettore, ma anche al (tele)spettatore, una sensazione di tranquillità e di benessere, che lo predispone volentieri alla lettura e alla visione. Il sottotitolo che Soldati volle per il suo “Viaggio nella valle del Po”, che a distanza di 50 anni esatti qui ripercorriamo, è forse il carattere principale della sua poetica: “Alla ricerca dei cibi genuini”.
Fidatevi dunque, la mia pagina è sincera, quello che vi faccio vedere è vero, promette Soldati. C’è un passaggio esemplare in uno dei suoi “Racconti del Maresciallo”: “Ma lui sa che io scrivo i suoi racconti: e ci tiene, prima di tutto, a essere serio, a essere sincero”, dice Soldati del suo amico carabiniere nel racconto “Un sospetto”, ambientato a Bardonecchia. E qualche riga dopo lo stesso maresciallo precisa: “Dovrei inventare, e i’ sôn nen bôn… non sono capace”.
Poco importa se poi qua e là, nei suoi romanzi, come nei suoi film e nelle trasmissioni tv, sono disseminate piccole e innocue trappole. Quello che conta è che Soldati odia l’artefatto, l’adulterato. Nel cibo, nel vino, nella letteratura. Soldati non ha mai fatto parte dell’avanguardia, aveva in orrore lo sperimentalismo, come dimostrano i suoi interventi alle cerimonie di premiazione del Premio Pannunzio, che presiedette per anni. La sua pagina è piana, semplice, naturale, come lo scorrere del Po. Il complimento più bello glielo fece Italo Calvino, quando in una lettera a Pasolini sostenne che Soldati “scrive in italiano come i francesi scrivono in francese”. Chi conosce Zola e Balzac sa che cosa voleva dire. E non è un caso se facciamo i nomi di due scrittori dell’Ottocento.
Prima tappa: Crissolo.
Nelle giornate in cui il cielo è terso, i torinesi possono vedere nitidamente il Monviso, la montagna piemontese da cui nasce il Po. “La si vede bene non tanto perché è la più alta, quanto perché è isolata”, spiega Soldati. Il quale informa i telespettatori che finalmente può esaudire un suo antico desiderio, quello di andare alla sorgente del Po. È come risalire alle origini. Quando è nato il Po? La ricerca dei cibi genuini coincide con una sorta di ricerca della natura non contaminata, là dove termina l’asfalto, le strade sono polverose, gli automezzi della Rai arrancano. Come se il bitume fosse, oltre che un segno di alterazione del paesaggio naturale, anche la prova di una presunta sofisticazione dei cibi. Che cosa trova Soldati alle pendici del Monviso? Niente più di un simpatico ruscello e un pescatore solitario. Ecco, dunque, che la trota sarà il suo primo “trofeo”. Soldati, con l’inconfondibile basco nero, tesse l’elogio della trota di montagna, la trota “fario”, che vive nei torrenti ed è più buona e pregiata di quella di lago o di quella di fiume. È un pesce in grado di risalire la corrente con balzi di 2-3 metri. Il signor Mattio il pescatore, ne prende un chilo, un chilo e mezzo a giornata. È la sua passione, ma lavora anche la terra e ha una vacca tutta sua. Lo spunto di una trota che guizza nel torrente è sufficiente per dare vita a un filone del discorso che lo scrittore seguirà fino a quando non arriverà al delta del Po, quello sulle tecniche di allevamento degli animali, la conservazione e la preparazione dei cibi.
Soldati si sposta con la troupe in un vivaio e si fa spiegare, e spiega a sua volta ai telespettatori con parole semplici, il metodo di allevamento delle trote, attraverso la fecondazione artificiale delle uova. Ogni femmina, dice, “dà fino a 2.500 uova per ogni chilo di peso”. Soldati mostra le vasche con le uova, poi le bacinelle con gli avannotti, pesciolini non più grandi di un mignolo che, dopo essere gettati in grandi vasche di cemento, diventeranno trote vere e proprie, “più grosse, ma molto meno buone di quelle di torrente”, precisa Soldati. La trasmissione sarà un viaggio nella cultura di un popolo, il popolo che ha sempre vissuto sulle sponde del Po. Grazie a un atteggiamento di curiosità e modestia di fronte a gente che può insegnargli cose che non sa, Soldati informa e insegna a sua volta, chiedendo la complicità del cameraman e, spesso, degli stessi telespettatori. Non si preoccupa di passare per un incompetente o uno sprovveduto, anzi. Sono caratteristiche che assume volentieri per rendere più simpatico il personaggio, spesso leggermente teatrale, del conduttore televisivo. Soldati curiosa, chiede e indaga, s’interessa dei ritmi di lavoro, della scansione della giornata, delle tecniche produttive e, in questo modo, porta direttamente nelle città, attraverso un mezzo innovativo come la televisione, il sapere delle campagne. Come spiega bene Emiliano Morreale nella biografia dello scrittore (“Le carriere di un libertino”, Le Mani, Genova, 2006), “Soldati crede davvero che sia possibile venire a capo dei destini umani con una ragione empatica e caritatevole, che coincide, in definitiva con la narrazione”.
Seconda tappa: Andezeno (Chieri)
C’è una verdura di cui si parla raramente. Eppure è una verdura unica, rara, che cresce soltanto nella Valle del Po, forse soltanto in Piemonte. È il cardo, un prodotto della terra poco importante, ma dal quale non si può prescindere per gustare una vera bagna caòda. Il cardo che arriva in tavola sembra un lontanissimo parente del prodotto coltivato, che può essere alto anche più di un metro e mezzo. Soldati decide di farlo conoscere in tutta Italia: “Il centro della coltivazione del cardo è a Chieri – dice – nella collina torinese, sulla riva destra del Po”. Il cardo “gobbo”, ancora oggi, si coltiva invece a Nizza Monferrato, Castelnuovo Belbo e Incisa Scapaccino. Chieri è la patria dei grissini, ma quello che conta ora è la bagna caòda. Soldati mostra ai telespettatori come si fa: burro, acciughe, olio in abbondanza: “Ma attenzione: le acciughe non devono essere lavate dal sale, lasciatelo tutto”, avverte Soldati. Poi la cuoca prende dell’aglio e lo taglia fine fine. Tutto questo deve cuocere prima e durante il pranzo, perché “la salsa d’acciughe è buona quando è calda”. Qui le telecamere inquadrano un esercito di scaldini, “sciufìn” in piemontese, per il mantenimento a temperatura dell’intingolo.
Bisogna però spostarsi dal ristorante ai campi per avere le informazioni sulla semina e sulla crescita dei cardi. Qui c’è un contadino che li coltiva da una vita. Si chiama Oreste. Spiega che si seminano in aprile e si raccolgono tra la fine di agosto e dicembre. Soldati domanda perché questa verdura deve stare interamente interrata. La spiegazione è banale: altrimenti il cardo non rimarrebbe bianco. L’interramento ha una durata variabile mese per mese, il che significa un gran lavoraccio per il contadino. Ma alla fine, nei mesi di novembre e dicembre, il vecchio Oreste scende a Torino per vendere i suoi cardi al mercato.
“Ma lei ne mangia?”, chiede Soldati.
“Sì, qualche volta, con la bagna caòda, ma anche bolliti”.
“Li cucina sua moglie?”
“Sì”.
“E come le fa sapere che è pronto?”
“Ah, non c’è problema. Quando il campanile suona mezzogiorno ci fermiamo e andiamo a casa”.
Soldati sottolinea la cosa: “Io la ringrazio per questo che mi ha detto, una cosa che mi ha commosso. Tutti qui, quando è mezzogiorno, lasciano il lavoro e vanno a tavola. Questa è una bella tradizione e io credo che questa tradizione sia il principio primo della genuina gastronomia, una tradizione che si sta perdendo. Purtroppo la vita della città ci obbliga ad andare a tavola anche all’una, alle due, senza una regola, variando continuamente”. A quel punto racconta al contadino e ai telespettatori un aneddoto che ha per protagonisti Giolitti e il duca d’Aosta. Il primo stava uscendo dal Viminale quando vede arrivare il duca d’Aosta che doveva parlargli. Ma Giolitti lo ferma e gli dice: “No, mi rincresce, altezza, ma quando è mezzogiorno tutti devono andare a tavola”. Scriverà giustamente il critico cinematografico Paolo Gobetti, il figlio di Piero Gobetti, sul numero del 1° gennaio ’58 di “Cinema nuovo”: “Il Viaggio nella valle del Po, muovendo dal dato di partenza un po’ banale costituito dalla ricerca delle specialità culinarie delle varie zone, allarga il suo discorso alla vita degli uomini che vivono in quelle zone. E le specialità gastronomiche diventano un riflesso, non banale, di un modo di vita, o addirittura una determinata civiltà”.
Terza tappa: Ponti
L’ultima tappa della prima puntata (le trasmissioni duravano circa tre quarti d’ora) si fa a Ponti, un paesino della Val Bormida di Spigno. Il cibo è la polenta, che alcuni anni dopo Soldati celebrerà in uno dei suoi “Racconti del maresciallo” (per l’esattezza “I bei denti del sciur Dino”, che comincia con l’attesa che la polenta venga portata a tavola), storie poi raccolte in volume nel ’67 e che daranno vita a una serie di sceneggiati televisivi, protagonista Turi Ferro. Qui l’occasione per raccontare la polenta è data dalla Festa del Polentone che peraltro non si celebra soltanto a Ponti, ma in molti altri paesi piemontesi, come ad esempio Roccaverano e Bubbio. Ponti è conosciuta anche grazie al romanzo di Augusto Monti, intitolato “I Sanssôssi”, una saga che copre due secoli di storia piemontese, dall’occupazione napoleonica alle prime lotte operaie del Novecento. C’è un lungo capitolo, intitolato “Il campanile di Ponti”, che ha come protagonista un prete, parente di Bartômlìn Monti, il padre di Augusto. Purtroppo, nelle immagini dedicate a Ponti, Mario Soldati non c’è o non si fa vedere, mancano quindi le discussioni, le sue domande su come si fa la polenta, da dove viene la materia prima, i risvolti storico-letterari. A parlare sono solo le immagini e la colonna sonora della festa, che rievoca un atto di generosità del conte del Carretto, il quale – nel 1650 – diede da mangiare a un gruppo di calderai calabresi (in dialetto piemontese “magnani” o “magnini”) in cerca di lavoro al Nord. Il rito della festa prevede che degli uomini vestiti da calderai domandino al conte ospitalità. Il conte gli risponde che sarà felice di allestire una tavola per loro e che avranno polenta, merluzzo e uova, ché “al mondo non si trova boccone più squisito”. Gli anziani cantano, una banda suona chitarre e fisarmoniche, i giovani sbattono le uova e girano la polenta con i bastoni. Poi grossi pentoloni di polenta calda e morbida vengono rovesciati su grandi tavole di legno all’aperto. Sullo sfondo c’è una giostra che gira, quel tipo di giostra con singoli seggiolini agganciati a lunghe catene, dove – grazie alla velocità – i passeggeri possono attaccarsi l’uno all’altro. Il cibo è genuino, la felicità di quegli anni anche.
di Riccardo De Gennaro
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